I

LA PRIMA FORMAZIONE

Solo nel 1817, nell’importante dialogo epistolare con il Giordani, il Leopardi prenderà chiara e drammatica coscienza della sua situazione di chiusura e di solitudine; situazione che egli, in una lettera del 30 aprile di quell’anno, estende dal limite piú vicino della casa paterna a Recanati, alla Marca Picena, a tutto «il mezzogiorno dello Stato Romano», confrontato, a contrasto, con la situazione culturale e letteraria aperta e viva della Romagna e del Settentrione italiano[1]. Si tratta di un giudizio appassionato ed estremo, ma sostanzialmente giusto, che piú tardi, durante il soggiorno romano del ’22-23, il Leopardi applicherà con molta durezza alla precisa situazione culturale di Roma, il centro su cui (anche durante lo stesso periodo napoleonico) Recanati e la Marca meridionale sostanzialmente gravitano.

Ma negli anni della fanciullezza e della prima adolescenza l’attività di scrittore e di verseggiatore si svolse entro i precisi limiti di quel piccolo ambiente familiare e recanatese, a contatto con pedagoghi e insegnanti di limitata cultura (il Diotallevi, il Sanchini, il gesuita messicano Torres, il prete refrattario alsaziano, Vogel), legato a una prospettiva umanistica gesuitica, provinciale e arretrata, conservatrice e retorica, entro la quale soprattutto spiccava, nella casa e in Recanati, la figura del padre Monaldo.

Lo svolgimento successivo del Leopardi sarà in gran parte un progressivo allontanamento dalle posizioni, dalla cultura, dalla mentalità del padre di cui, nella sua maturità, egli costituirà, in ogni senso, la piú recisa antitesi, con un dissenso energico che si pronuncerà poi clamorosamente in occasione della pubblicazione dei Dialoghetti paterni e dell’attribuzione, in qualche giornale del tempo, di questa operetta ultrareazionaria allo stesso Giacomo: il quale smentirà pubblicamente tale assurda e infamante attribuzione e in una lettera del 15 maggio 1832 al cugino Melchiorri definirà quell’opera «sozzi fanatici dialogacci», «infame, infamissimo, scelleratissimo libro»[2].

Chi voglia poi avere una piú precisa idea di Monaldo, delle sue posizioni fanatiche e paradossalmente retrive (che finirono per infastidire persino il governo pontificio e per far vietare la continuazione della sua personale rivista, La Voce della Ragione, provocando un ironico e amaro commento del figlio in una lettera al padre del 19 febbraio 1836)[3] potrà rivolgersi alla Autobiografia di Monaldo[4] caratteristica per la mentalità di questo nobile altezzoso e tutto chiuso nella difesa dei privilegi della sua classe, pieno di rimpianti per le scoperte di Keplero, Copernico e Galileo (che hanno minacciato l’ordine celeste e terrestre, come i moderni liberali sconvolgono l’ordine del trono e dell’altare); o alla sua rivista prima ricordata (in cui potrà, fra l’altro, leggersi un ritratto dell’Alfieri, l’amatissimo Alfieri di Giacomo, come di un essere a cui non mancavano che altre due gambe per essere completamente una bestia); o agli stessi Dialoghetti[5] in cui (fra le lodi del boia, “primo ministro” dei re[6], le invettive contro le ingenuità dei principi della Restaurazione che introducono la rivoluzione accettando anche minimi elementi costituzionali) può esser citata, come esempio estremo di questa prospettiva cattolico-reazionaria, la battuta contro i greci cristiani, in lotta contro i turchi oppressori, i maomettani, perché «il Cristianesimo comanda la fedeltà e l’ubbidienza, condannando sempre la rivolta, e l’Evangelo de’ Cristiani vuole che si renda a Cesare quello che è di Cesare. Il Cesare dei Greci è il Gran-Turco, e coloro ribellandosi al proprio principe hanno trasgredita la Legge Cristiana»[7].

E, da un punto di vista culturale e letterario, Monaldo era un tipico ed estremo rappresentante provinciale di quella cultura reazionaria che cercava pure di giovarsi di certi elementi illuministici e nazionalistici in appoggio a una piú “soda” religione e di quel gusto letterario di tipo oratorio e gesuitico che puntava sulla scrittura ornata e retorica, basata molto sullo scrivere in latino e sulle esercitazioni di eloquenza in prosa e in verso, mentre, nelle sue velleità di scrittore originale, egli aveva tentato il genere tragico con tragedie ispirate ai suoi ideali religiosi e reazionari, e dipendenti da quel teatro gesuitico che retoricamente esaltava, sino al paradosso, virtú altruistiche fuori di ogni possibile addentellato con la realtà e fuori quindi di ogni possibile pratico stimolo attivo.

Comunque, per i suoi interessi culturali “eruditi”, e letterari (fra i quali rientravano particolarmente la storia sacra e la storia locale), Monaldo si era creato, in modo piuttosto caotico, una grossa biblioteca, assai squilibrata e farraginosa (spesso aveva acquistato libri a peso di carta prendendo quel che trovava), con presenze e assenze anche casuali, ma che comunque offrí vasto materiale alle letture e ai primi studi di Giacomo, soprattutto quando, nel 1813, gli fu concessa l’autorizzazione a leggere i libri “proibiti” dall’Indice ecclesiastico.

Cosí, specie nel periodo 1809-12, durante il quale il Leopardi scrisse moltissimi versi e prose (spesso poi recitati in quell’Accademia di casa Leopardi in cui Monaldo esibiva con orgoglio ai suoi concittadini le buone prove di studio dei suoi figli), il giovane Giacomo si presenta entro i limiti della prospettiva dei suoi insegnanti e del padre, ed elabora una produzione quantitativamente massiccia, prova comunque di una intensa vocazione e volontà scrittoria, ma sostanzialmente poco indicativa nei confronti delle sue tendenze originali ancora ben lungi dal manifestarsi.

Si tratta, dunque, di una produzione su cui non conviene troppo insistere, spesso ai limiti della pura esercitazione scolastica, sia nei componimenti in prosa latina e italiana, atteggiati in forme di genere oratorio (amplificazioni, parafrasi, dimostrazioni, perorazioni ecc.), sia nelle composizioni in versi legate alla sperimentazione eloquente su diversi temi e in diverse forme metriche.

Si potranno indicare in questo vasto materiale in versi[8] tre prevalenti direzioni di tematica, anzitutto una tematica canzonettistico-idillica che si rifà all’Arcadia di primo Settecento, a qualche esempio settecentesco piú tardo (Frugoni, Savioli, Bertola) e che si amplia, nel 1810, in un idillio elegiaco, L’amicizia, che è un calco di un componimento del preromantico svizzero Salomon Gessner (La tomba dell’uom dabbene), e rappresenta il margine piú “moderno” dei suoi esempi.

Su questa direzione si potrà cogliere (senza nessun vero rapporto con i futuri elementi idillici leopardiani) qualche quadretto di maniera in cui la mano dell’apprendista scrittore cerca di sveltirsi in rapidi tocchi di colore e di ritmo non senza incepparsi in vere e proprie zeppe per ragioni di rima e in facili cadute prosastiche. Come può vedersi in questo brano della Campagna:

Già segna del meriggio

il sol nel cielo l’ora

e insieme i colli splendidi

di maggior luce indora;

ognun rivolge il piede

all’ombra, e ognun già siede.

già di lontano scorgesi

portar la parca mensa

la contadina provvida:

intorno a lei s’addensa

ed alto grida lieto

de’ contadini il ceto.[9]

L’altra direzione è costituita da una velleità grandiosa ed eroica sorretta da echi di quella poesia settecentesca e da quella Arcadia piú enfatica che ebbe particolare sviluppo fra certi sonetti “grandiosi” dello Zappi (presente invece nella prima direzione con i suoi modelli piú aggraziati e melodici) e la immaginosità clamorosa del Frugoni e dei suoi seguaci. Ed ecco sonetti come il primo scritto dal Leopardi nel 1809, La morte di Ettore[10], componimenti piú ampi come La morte di Saulle e le terzine della Morte di Catone, dove ritornano anche moduli del Metastasio piú velleitario ed “eroico”, quali piú decisamente si avvertono in quei tentativi di tragedia (La virtú indiana e Pompeo in Egitto) che costituiscono il maggiore sforzo compositivo dell’adolescente e piú direttamente si ricollegano alle forme del teatro gesuitico settecentesco e agli esempi teatrali dello stesso Monaldo: assenza di donne fra i personaggi per ragioni moralistiche, esaltazione paradossale di sentimenti virtuosi-eroici in una direzione di cui ben colse i caratteri l’Alfieri nella satira VIII parlando, a proposito di certo teatro metastasiano falso-eroico, di «sensi feroci», ma espressi in una forma enfatica e insieme melodica «Sí che l’alma li beve e par che dorma» (vv. 83-84).

Anche qui, all’osservazione di un esercizio che pur permetteva al giovanotto di fare un’esperienza di forme della poesia settecentesca che non rimasero senza ripresa anche a livello piú maturo, non può non accompagnarsi l’avvertimento a non sottoporre questi gracili testi a un tentativo di valorizzazione di sicuri elementi leopardiani in formazione: ben altra è l’origine di certi impeti eroici della canzone All’Italia a cui potrebbero far pensare alcune battute del Pompeo in Egitto, come la seguente battuta di Tolomeo (Atto primo, scena settima):

Che se pur anco all’empio Duce in faccia

fugga l’infido stuolo, e insegne ed armi

in preda lasci alle nemiche squadre,

sol me vedrà la turba ostile al suo

insano empio furor far fronte immoto,

me sol pugnar, me sol cadere estinto

del fier tiranno appiè: [...]. (vv. 39-45)[11]

Certo il giovanetto immetteva in quelle forme enfatiche e scolastiche un suo ingenuo entusiasmo, un suo ardore morale, ma le vere sue forze, in questo senso, potranno entrare in azione e mostrarsi veramente sue solo in un diverso cerchio di esperienze e di maturità, consapevolezza e destinazione.

Cosí che di fronte a tanto peso scolastico e retorico, può sembrare piú genuina, entro i limiti di cose cosí immature, la direzione di un piú libero esercizio di divertimento comico legato a quella tendenza parodistica e lieta del fanciullo e adolescente, documentata dai ricordi del fratello Carlo: quando Giacomo, con lo pseudonimo di Filzero, inventava scherzi, fiabe, satireggiava il fratello, lo stesso padre, la sorella Paolina. Ne nascono alcuni componimenti scherzosi in versi, specie diretti alla sorella[12], non privi di una loro facile festività, di un brio estroso che meglio si consolida in quella letterina della Befana alla marchesa Roberti che si può riportare come documento di una capacità scrittoria e umoristica di qualche interesse e lontana dall’atteggiato impegno scolastico e retorico delle altre direzioni degli scritti di questa prima fase:

Carissima Signora. Giacché mi trovo in viaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra Conversazione, ma la Neve mi ha rotto le tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro Portone, e poi tirare avanti il mio viaggio. Bensí vi mando certe bagattelle per cotesti figliuoli, acciocché siano buoni ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altro Anno gli porterò un po’ di Merda. Veramente io volevo destinare a ognuno il suo regalo, per esempio a chi un corno, a chi un altro, ma ho temuto di dimostrare parzialità, e che quello il quale avesse li corni curti invidiasse li corni lunghi. Ho pensato dunque di rimettere le cose alla ventura, e farete cosí. Dentro l’anessa cartina trovarete tanti biglietti con altrettanti Numeri. Mettete tutti questi biglietti dentro un Orinale, e mischiateli bene bene con le vostre mani. Poi ognuno pigli il suo biglietto, e veda il suo numero. Poi con la anessa chiave aprite il Baulle. Prima di tutto ci trovarete certa cosetta da godere in comune e credo che cotesti Signori la gradiranno perché sono un branco di ghiotti. Poi ci trovarete tutti li corni segnati col rispettivo numero. Ognuno pigli il suo, e vada in pace. Chi non è contento del Corno che gli tocca faccia a baratto con li Corni delli Compagni. Se avvanza qualche corno lo riprenderò al mio ritorno. Un altr’Anno poi si vedrà di far meglio.

Voi poi Signora Carissima avvertite in tutto quest’Anno di trattare bene cotesti Signori, non solo col Caffè ché già si intende, ma ancora con Pasticci, Crostate, Cialde, Cialdoni, ed altri regali, e non siate stitica, e non vi fate pregare, perché chi vuole la conversazione deve allargare la mano, e se darete un Pasticcio per sera sarete meglio lodata, e la vostra Conversazione si chiamarà la Conversazione del Pasticcio. Fra tanto state allegri, e andate tutti dove io vi mando, e restateci finché non torno ghiotti, indiscreti, somari scrocconi dal primo fino all’ultimo. La Befana.[13]

Ed è su questa direzione che meglio si pronuncia anche una prima volontà di traduzione poetica (ripresa poi fra la fine del ’14 e il ’15 con ben altra preparazione filologica, altro impegno critico e altra possibilità di inserimento della traduzione poetica in una crescente personale ansia di poesia), volontà che si esprime soprattutto nelle forme comiche dell’Arte Poetica di Orazio travestita ed esposta in ottava rima e che, in questo lungo esercizio, implica anche un certo notevole arricchimento di linguaggio comico-realistico attraverso la lettura usufruita di autori di poemetti comici ed eroicomici, dal Malmantile racquistato del Lippi al Ricciardetto del Forteguerri.


1 Cfr. la lettera a Pietro Giordani del 30 aprile 1817 nel primo volume di G. Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1969 (19896), specie alle pp. 1024-1025. Tutte le citazioni leopardiane saranno ricavate da questa edizione. Le citazioni dallo Zibaldone verranno indicate riportando in nota la numerazione delle pagine dell’edizione sansoniana (di cui lo Zibaldone costituisce, appunto, il secondo volume), mentre nel testo si leggerà, tra parentesi quadre, il rimando alla numerazione dell’autografo.

2 Tutte le opere, I, p. 1381.

3 «Mi è stato molto doloroso di sentire che la legittimità si mostri cosí poco grata alla sua penna di tanto che essa ha combattuto per la causa di quella. Dico doloroso, non però strano: perché tale è il costume degli uomini di tutti i partiti, e perché i legittimi (mi permetterà di dirlo) non amano troppo che la loro causa si difenda con parole, atteso che il solo confessare che nel globo terrestre vi sia qualcuno che volga in dubbio la plenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede di gran lunga la libertà conceduta alle penne dei mortali: oltre che essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, a cui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversarii per ora non hanno che rispondere». Tutte le opere, I, pp. 1410-1411.

4 Cfr. M. Leopardi, Autobiografia, con Appendice di A. Avòli, Roma, tip. A. Befani, 1883. Ma si veda ora M. Leopardi, Autobiografia e dialoghetti, introduzione di C. Grabher, testo e note a cura di A. Briganti, Bologna, Cappelli, 1972.

5 Per i Dialoghetti si può anche vedere l’edizione parziale a cura di A. Moravia, Viaggio di Pulcinella, Roma, Atlantica, 1945.

6 «il principe piú pietoso è quello che tiene per primo ministro il carnefice», M. Leopardi, Autobiografia e dialoghetti cit., p. 299.

7 Cfr. M. Leopardi, Autobiografia e dialoghetti cit., p. 231.

8 Cfr. la sezione «Puerili» in Tutte le opere, I, pp. 513-564, o «Entro dipinta gabbia». Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di Giacomo Leopardi, a cura di M. Corti, Milano, Bompiani, 1972, di cui recentemente è uscita anche un’edizione tascabile (Milano, Bompiani, 1993).

9 I versi riportati (15-26) sono tratti dalla Canzonetta IV. (Tutte le opere, I, p. 519).

10 Lo riporto come esempio di una ingenua costruzione retorico-scolastica a forma spettacolare, assai esercitata dal Leopardi nei suoi «puerili»:

Fermati, duce; non ti basta? ah mira

come a te s’avvicina achille il forte,

che gran furore e insiem vendetta spira

e inferocito anela alla tua morte.

Ettor non m’ode, e alla battaglia aspira;

ah che quivi l’attende iniqua sorte!

Ei vibra il ferro: quegli si raggira

e schiva il colpo colle braccia accorte.

Drizza poi l’asta sfolgorante luce;

fermano il corso per mestizia i fiumi;

già vola il crudo acciar... Fermati, o truce!

Torcon lo sguardo inorriditi i Numi;

il colpo arrivò già, cadde il gran Duce;

cadde l’eroe di Troia e chiuse i lumi. Tutte le opere, I, p. 515.

11 Tutte le opere, I, p. 551.

12 Si rilegga a tratti il componimento riportato in Tutte le opere, I, p. 525:

Fuvvi un dí che si potea

dirvi quel che si volea.

Si potea scherzare un poco

senza farvi andare in fuoco.

Sentivate questo e quello

senza prendere un cappello, [...]

Or però non è cosí:

s’io volessi in oggidí

dirvi un po’ quattro facezie,

schiccherar tre o quattro inezie,

prendereste voi di botto

un orribile fagotto

pien di polve di cannoni

da sparar per i calzoni. (vv. 1-6 e 17-24)

13 Tutte le opere, I, p. 1005.